Contributo unificato. Sanzione ridotta

Dichiarare il valore della lite evita la sanzione di 1.500 euro

Il principio costituzionale di ragionevolezza della norme di legge impone un adeguamento della sanzione amministrativa alla violazione commessa. Lo ha sostenuto la Commissione Tributaria Provinciale di Bergamo, con la sentenza n. 81/01/13.

Il caso. I giudici bergamaschi hanno parzialmente accolto il ricorso di una contribuente, che aveva impugnato un avviso di accertamento ICI dimenticando di inserire nel ricorso la dichiarazione di valore ai fini del versamento del contributo unificato. Trattandosi di controversia di valore inferiore a 2.852,28 euro, la donna non si era fatta assistere da un professionista.

L’omissione. In conseguenza della predetta omissione, l’ufficio di segreteria della commissione tributaria adita attivava la procedura di riscossione del contributo unificato, applicandolo nella misura massima di 1.500 euro (infatti, in mancanza di indicazione del valore della controversia, si prende a riferimento lo scaglione di valore più elevato, cioè 200 mila euro). Di qui l’opposizione della contribuente all’invito di pagamento rivoltole dall’ufficio.

Atto impugnabile. La CTP di Bergamo, in via preliminare, ha dichiarato ammissibile il ricorso, in quanto deve essere considerato atto impugnabile anche l’invito di pagamento relativo al contributo unificato non versato dal ricorrente. È orientamento consolidato della Cassazione che “ai fini dell’accesso alla giurisdizione tributaria debbono essere qualificati come avvisi di accertamento o di liquidazione di un tributo tutti quegli atti con cui la Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ancorché tale comunicazione si concluda non con una formale intimazione al pagamento sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito ‘bonario’ a versare quanto dovuto. Cioè appare essenziale, perché si possa parlare di avviso di accertamento o di liquidazione, che il testo manifesti una pretesa tributaria compiuta e non condizionata, ancorché accompagnata dalla sollecitazione a pagare spontaneamente per evitare spese ulteriori (o anche essere ammesso a qualche beneficio)”. Ne deriva, ad avviso del collegio di primo grado, che l’ente impostore non può modificare a suo piacimento questa impostazione di diritto “dichiarando ‘non impugnabili’ atti che impugnabili sono […]”.

Soluzione ragionevole. Nel merito, la CTP ha ricordato che l’art. 14, co. 3 -bis del D.P.R. n. 115/2002 dispone che nei processi tributari, il valore della lite deve risultare da apposita dichiarazione resa nelle conclusioni del ricorso, mentre l’articolo. 13, co. 6 del medesimo D.P.R. precisa che se manca la dichiarazione di cui al comma 3-bis dell’art. 14, il processo si presume del valore indicato al comma 6-quater lett. f) secondo cui è dovuto un contributo unificato di euro 1.500 per controversie di valore superiore a Euro 200.000. “L’applicazione incondizionata di tale normativa – si legge in sentenza -, ove essa non fosse accompagnata da un correttivo previsto dalla legge, determinerebbe tuttavia un giudizio di manifesta irragionevolezza della legge stessa ed imporrebbe al giudice l’obbligo di sollevare eccezione di illegittimità costituzionale”, a meno che non sia possibile fornire un’interpretazione diversa, per effetto della quale il combinato disposto delle norme citate venga ad acquisire il necessario connotato di ragionevolezza. Interpretazione che la CTP ha rinvenuto nella significativa espressione usata dal Legislatore laddove ha stabilito che se manca la dichiarazione di cui al comma 3-bis dell’art. 14, il processo “si presume” del valore di 200 mila euro. Deve pertanto ammettersi per il contribuente la possibilità di superare la presunzione di legge. Cosa accaduta nel caso di specie in cui la ricorrente, sulla base di prova certa documentale, ha dimostrato “che il valore effettivo della controversia è inferiore ad Euro 2.582,28 e che pertanto essa è tenuta a versare un contributo unificato di Euro 30,00. Tale importo va tuttavia aumentato della metà, sino ad Euro 45,00, a norma dell’art. 13 comma 3-bis stesso DPR dal momento che la ricorrente non ha indicato nel ricorso neppure il proprio codice fiscale”.